giovedì 21 aprile 2016

Camminando - I miei 20 anni

...devo dire che è parecchio tempo che non percorro questi sentieri, ma da molto ne sento la necessità. Così, quando ho tempo, torno.
Sono ormai un paio di mesi che sono nei 20 anni, ho chiuso con la fase "teen": ora si entra nella vita. Volevo raccontarvi cosa mi sembrano, per il momento, questi vent'anni.

Ho capito che per me i vent'anni sono:
- "la vita che inizia a darti del tu" (A.D'Avenia) e tu che esisti a te stesso nella vita, con forti momenti di paura e responsabilità;
- i giorni e le settimane che si riempiono e non sai più dove far stare tutta la vita nelle 24 ore al giorno che ci sono concesse;
- pensieri e intuizioni che sembra non stessero aspettando altro che il coraggio dei vent'anni per farsi realtà. Idee, molte volte condivise, che (ri)costruiscono e vedono futuro anche dove è insospettabile una Primavera;
- queste idee, parlano di attenzione e cura; parlano il linguaggio dell'amore e della crescita dei più giovani, di un dono che hanno il diritto di ricevere;
- la Cura nelle relazioni e nella scelta delle parole;
- l'attenzione e l'educazione dello sguardo alla Bellezza: accorgersi che la Primavera non dura che una settimana, che i fiori sbocciano e subito diventano foglie;
- il tempo in cui non sono più la mamma e il papà a parlare per te, ma tocca a te prendere la macchina e andare personalmente a dire dei "roubsti sì e dei sani no" (cit.), certa comunque del loro sostegno e pensiero a casa;
- la valigia da fare per l'università e i treni da prendere;
- la vita in appartamento e intestarsi le bollette: anche così scopri che esisti, con un nome sulla carta;
- saper chiedere aiuto e consiglio;
- proposte che ti coinvolgono direttamente per il bene della collettività, non solo della comunità;
- delle decisioni da prendere, nuovi sentieri da imboccare;
- essere orgogliosa di un progetto, una persona, un'amicizia. Oggi ho scoperto di essere orgogliosa del mio Liceo, che è stata, forse, l'esperienza più umana e formativa di questi 20 anni;
- essere seduta ad un tavolo con soli adulti e, con umiltà, saper donare chi sei e vederti apprezzata (convinta, in ogni caso, che di quello che sei poco dipende da te);
- avere degli amici speciali in altri Paesi, in Bosnia per esempio, e sperare che arrivi presto il momento di andarli a trovare;
- i passi da fare da sola, anche fisicamente, perchè la strada che hai scelto è diversa da quelle degli altri;
- sentirti sempre in continua corsa, ma aver bisogno di un attimo di sosta per prendere fiato;
- sentire la fiducia che gli altri ripongono in te;
- imparare ad amare tutti, sentendoti libera di non doverti vincolare a qualcuno in particolare;

- sentirti "sul pezzo" nel posto in cui ti trovi, sentirti tutta d'un pezzo, camminare sicura di chi sei e di chi vuoi essere; ma, nonostante tutto essere ancora quella impacciata, imbarazzata, a tratti infantile, scoordinata,...insomma, quella per cui la faccina di whatsapp con la gocciolina in alto a destra è a dir poco significativa...


Ma mi piace così, mi piaccio così. Imparando a conoscermi.

Buon cammino a chi ha avuto la pazienza di tornare qui ancora!

Marta











mercoledì 3 febbraio 2016

Camminando - Educare alla tenerezza

Mi sono appena imbattuta, e con voi lo vorrei condividere, questo articolo scritto da don Achille Rossi, sacerdote, scrittore e filosofo italiano, a proposito di una visione "alternativa" dell'educazione dei giovani: quella alla Tenerezza, come sguardo che appassiona alla vita e al Servizio (anche socialmente utile) all'altro.
Ho l’impressione che i giovani di oggi siano stati defraudati dei sogni. I ragazzi non sognano più perché non vengono dette parole che animino l’esistenza. È come se fossero condannati a vivere di niente e nessuno li avesse aiutati a costruire una base solida  per il viaggio della vita.
Di fronte a questa situazione diventa ancora più urgente chiedersi cosa significhi educare. In sostanza l’impegno educativo non può che svilupparsi attorno alle relazioni umane. Il vero bagaglio che resiste all’urto della vita si costruisce nella scoperta di un senso. Il senso libera dal vuoto e dal nulla che assedia l’esistenza umana. Oserei dire che il nichilismo vissuto oggi dai giovani ha una tonalità affettiva più che intellettuale e ruota attorno alla convinzione che non ci sia nulla per cui valga la pena di spendersi e appassionarsi.
La solitudine crescente delle giovani generazioni può essere guarita solo lasciandosi coinvolgere in una relazione reale, che significa ascolto, condivisione di esperienza, cammino fatto insieme. I ragazzi hanno bisogno di essere pensati, portati nel cuore.Questa silenziosa relazione dà vita a una corrente affettiva che libera dalla solitudine e fa fiorire l’esistenza umana come una continua nascita.
In un mondo travagliato dalla violenza uno dei compiti fondamentali di chi ha la responsabilità dei giovani è di educarli alla tenerezza. Non si tratta di fare l’apologia del buonismo o della passività, ma di essere convinti che la tenerezza è il vero principio di realtà che si oppone alla violenza. La violenza, in fondo, nasce dalla paura di vivere; la tenerezza, invece, custodisce la vita e la ripara.
Questa educazione alla tenerezza ha riflessi sul piano sociale e politico e porta immediatamente ad appassionarsi agli ultimi, perché rende sensibili al dolore altri.
Vorrei richiamare gli adulti a una evidenza solare: non si educa con quello che si dice, ma con quello che si è. Per aiutare i giovani a non soffocare nelle spire della società degli adulti, c’è bisogno di adulti che sappiano guardare oltre l’esistente e additare i sentieri dell’impossibile. I giovani seguiranno, come dimostra la storia di sempre.
Dobbiamo cominciare a vederli i giovani, perché la società sembra che non se ne occupi affatto. Eppure sono la parte più debole della popolazione: hanno un lavoro precario, una sicurezza sociale pari a zero,
un futuro certo di povertà, quando verrà a mancare il supporto dei genitori. I giovani interessano solo
come consumatori. Vederli significa porsi il problema del loro futuro, cercare soluzioni possibili alla loro mancanza di lavoro, stimolare la politica a farsi carico del loro avvenire. Se una comunità non riesce ad ascoltarli si interrompe il filo che lega le varie generazioni e l’esito finale è che i giovani si smarriscono perché portano un bagaglio troppo leggero e gli adulti intristiscono perché constatano il fallimento dei loro ideali.
Forse è il caso di ricordare al mondo adulto che per educare occorre entusiasmo, che non è l’euforia sentimentale, breve e passeggera, ma la consapevolezza della presenza del divino, come ricorda l’etimologia stessa della parola: en Thus (da Thoes) in Dio. 

C’è un proverbio sufi che sintetizza alla perfezione la qualità di un educatore: “Cosa fa di un uomo un genio? La capacità di riconoscere. Riconoscere che cosa? Una farfalla in un bruco, l’aquila in un uovo, il santo in un essere umano egoista”.
Fonte: http://ita.calameo.com/read/0021941173b87205951c5

Buon cammino!

 

giovedì 28 gennaio 2016

Camminando - Giovani

Devo confessarlo: la parola "giovani" mi innamora. Credere di far parte di questo equipaggio mi dona speranza, credo che potremo fare molta strada, andare lontano e cambiare questo mondo. E non lo scrivo al condizionale, ma all'indicativo futuro. Perchè quello è il nostro tempo: il tempo che ci guadagneremo sporcandoci le mani e colorando a tinte sgargianti questo mondo. D'accordo, potrete pensare che io ce l'abbia fissa con i colori, prima quelli della "pace", poi quelli del "futuro". Ma è che io ci credo veramente! Allora oggi voglio condividere questa lettera, in cui mi sono imbattuta un pò per caso.

Ai giovani
Ragazzi, io credo in voi.
Non è molto, me ne rendo conto. Ma partiamo da qui.
Verso di voi c’è infatti un pregiudizio diffuso. Sembrate candidati a spingere il mondo su quell’asse di declino nel quale si è da qualche tempo indirizzato. Come potreste invertire la rotta con la vostra fragilità, con il rapporto quasi ossessivo che avete col mondo virtuale? Ma io ci credo lo stesso. Ci credo perché i difetti che avete non sono vostri. Ve li abbiamo inoculati noi. Siete stati destinatari di un consumismo compulsivo, disorientati dalla confusione interiore dei vostri adulti di riferimento. Facile, in queste condizioni, profetizzare fallimenti. Ci credo in voi e non per partito preso, ma perché voi avete un valore inespugnabile: siete nuovi.
Portate dentro un frammento di nuovo che può contenere tutto, incluso un mondo migliore.
Perciò, se può esservi utile guardarvi indietro, ricordatevi però che la vostra forza è originata da ciò che vi aspetta all’orizzonte. Siete chiamati dal futuro. Siete il segno del futuro.
L’altro giorno ci ha lasciato un anziano saggio del mio paese, Renzo. Mi è venuto in mente l’atteggiamento che lui, padre di quattro figli, miei amici, aveva verso noi, all’epoca ragazzi: ci guardava con uno sguardo amoroso, con una fiducia incrollabile.
La sua era una generazione cresciuta durante la guerra, lui conosceva bene il peso della fatica e il valore del pane. Eppure era certo delle nostre potenzialità, ne era certo anche quando i nostri slanci giravano a vuoto, quando bastava una piccola delusione d’amore a metterci al tappeto.
Quella benevolenza dava luce ai nostri pallidi tentativi e ci rendeva liberi.
Beninteso, non era un credito concesso alla cieca: alle spalle c’era una testimonianza di vita forte, sicura. Il messaggio di vita coerente e la fiducia che ne derivava stavano insieme, come una cosa sola.
Negli ultimi tempi, insieme a don Luigi, mi è capitato spesso di parlare con voi negli incontri che
scuole e gruppi ci propongono per confrontarci, attraverso l’esperienza di Romena, su ciò che vi preme di più: speranze, amicizie, sogni, valori, sentimenti.
Credetemi: per un adulto non c’è niente di più stimolante che cercare di gettare un seme in un campo che ha la possibilità di farlo germogliare.
Ma quello che mi piace è anche riassaporare, grazie a voi, quella fase della vita in cui siamo nulla e possiamo essere tutto. Una fase nella quale, come dice lo scrittore Marco Lodoli, si può imparare a vivere nel modo che sarà sempre quello più giusto, e cioè con l’atteggiamento del principiante: un principiante, infatti, guarda la vita con attenzione e meraviglia, e compensa l’inesperienza con l’entusiasmo.
So che sul vostro cielo si addensano premature preoccupazioni. Le prospettive generali non sono allettanti, non c’è lavoro, qualcuno vi invita a disinnescare i vostri sogni.
A me non piace questo realismo, mi preoccupa chi getta acqua gelida sulla naturalità del vostro fuoco.
Scrive Stefano Benni: “Se i tempi non chiedono la tua parte migliore, inventa altri tempi”.
Ecco, questo potete fare, questo mi auguro che facciate: non accettare compromessi con un tempo che non vi piace e pensare invece ad inventarne uno che sia in linea con le vostre speranze.
Sognate tempi migliori, ragazzi, sognateli così forte da farli arrivare.
E introducete nella vita di tutti l’ingrediente che cambia il mondo, quello di cui siete i primi depositari: la parola ‘cominciare’.

Massimo Orlandi
Buon cammino!


giovedì 21 gennaio 2016

Camminando: Nuovi Orizzonti

Questo Natale, per la prima volta da 11 anni, una mia grande amica mi regala un libro. "Sai che non sono solita regalare un libro, ma questa volta dovevo: mi sei subito venuta in mente tu". Il libro in questione è l'ultimo di Chiara Amirante, fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti. La conoscevo solo per un "mi piace" nella sua pagina Facebook, senza avere mai approfondito ulteriormente le notizie su di lei. Ma, leggendo la sua storia nel sito della Comunità da lei fondata, mi accorgo che tanti dei desideri che lei nutriva da giovane sono gli stessi che mi stanno provocando da tempo. 
Ve la presento, con le sue stesse parole:

Ho sempre cercato, come penso faccia ogni persona, qualcosa capace di dare un senso profondo alla mia esistenza. Mi dicevo: ho una vita sola, voglio spenderla per qualcosa di grande! Cercavo la pace, la libertà, la sorgente capace di dissetare il mio cuore sempre inquieto, cercavo la gioia ed una frase del Vangelo mi ha raggiunto come una folgorazione: "Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio Amore… Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato, nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,9-12).".
Non immaginavo davvero di incontrare un popolo così sterminato di giovani soli, emarginati, sfregiati nella profondità del cuore e della dignità, vittime dei terribili tentacoli di piovre infernali e della più infame delle schiavitù. Quante ragazze vendute come schiave e costrette a svendere il loro corpo a gente senza scrupoli. Quanti giovani distrutti, imprigionati dall’illusione di un paradiso artificiale che ha ucciso loro l’anima. Quante grida silenziose e lancinanti mai ascoltate da nessuno; quanta disperazione, rabbia, violenza, devianza, criminalità… ma quanta incredibile sete di amore, di Dio proprio là, nella profondità delle tenebre degli inferi della strada.
Ho provato con un certo timore e tremore ad entrare in punta di piedi nelle storie delle persone che abitavano le zone più ‘calde’ della città e subito sono rimasta impressionata dalla sete di ascolto, di verità, di pace, di amore di … Dio. Tanti dei cosiddetti ‘criminali’, alcuni con fedine penali davvero impressionanti, non erano di fatto persone cattive, ma persone non amate; ragazzi con una grande sensibilità ma con il cuore impietrito dalle troppe violenze subite. Altri erano giovani arrivati da paesi più poveri pieni di buoni propositi e aspirazioni, ma ben presto catturati dalle reti della criminalità organizzata che non perdona. Altri ancora, bravi ragazzi di buona famiglia (alcuni li avevo conosciuti in precedenza) ammaliati dalle seducenti proposte del mondo (piacere, denaro, successo, apparire) e scivolati poi in una profonda insoddisfazione, solitudine, nausea sottile senza più riuscire a trovare risposte... ragazzi con un grande vuoto nel cuore che avevano tentato di colmarlo con lo sballo, la trasgressione, le sostanze stupefacenti.[...]


Ho così iniziato a recarmi di notte in strada spinta da un semplice desiderio: condividere la gioia dell’incontro con Cristo Risorto proprio con quei fratelli che erano più disperati.
Se la gioia che vediamo nel tuo sguardo viene davvero da Gesù e se è Lui che ti spinge a rischiare la tua vita per noi, parlaci un po’ di ‘sto Gesù!
Portaci via da questo inferno della strada. Vogliamo conoscere anche noi questo Gesù che ha cambiato la tua vita!
Ben presto mi sono resa conto che, anche se ero a Roma, nel cuore della cristianità, non riuscivo a trovare un luogo dove portare questi nostri fratelli che avevano un bisogno disperato di essere accolti e di incontrare Gesù. C’erano tantissime mense, ostelli per la notte, comunità psico-terapeutiche o lavorative, ma non riuscivo a trovarne neanche una che accogliesse immediatamente i ragazzi che incontravo in strada e desse loro la possibilità di un accompagnamento umano e spirituale, basato sul vangelo, nell’impegnativo cammino di ricostruzione interiore e di guarigione del cuore. [...]
Mi è venuta cosi l’idea di una comunità di accoglienza dove proporre come regola di vita il Vangelo. Naturalmente avevo mille timori, mi rendevo b
en conto che per una ragazza di ventisette anni, senza né risorse economiche né professionali (sono laureata in Scienze Politiche), pensare di trovare una casa per andare a vivere con ragazzi di strada considerati da tutti molto pericolosi era un po’ da matti. Ma sapevo che a Dio tutto è possibile (Mc. 9,23).
Nel marzo del ’94, nel più completo abbandono alla Provvidenza, è nata la prima Comunità Nuovi Orizzonti
 dove ho iniziato a vivere con i miei nuovi fratelli incontrati in strada e ho proposto loro di provare a vivere il vangelo. La risposta di questi ragazzi è stata davvero sorprendente ed entusiasmante. Da quella prima casetta, (con materassi sparsi per terra dappertutto per accogliere un numero sempre crescente di giovani che bussavano alla porta della comunità) si sono moltiplicati, in Italia e all’estero i Centri.
Gli stessi ragazzi accolti hanno subito sentito l’urgenza di impegnarsi in una pastorale di strada che veda come protagonisti non tanto dei bravi predicatori, ma dei testimoni che sappiano annunciare con forza ciò che l’incontro con Cristo Risorto ha operato nella loro vita.
Mi sembra di poter affermare che, se da una parte questa esperienza ci ha dato la possibilità di contemplare i miracoli della grazia, dall’altra ci siamo resi conto che l’SOS giovani è molto più allarmante di quanto rivelano le statistiche ufficiali.
Così ho capito di non essere da sola. E, dopo il SerMiG, anche questo potrebbe diventare un potenziale sentiero percorribile.

 

giovedì 14 gennaio 2016

Camminando - Testimonianze: SerMiG

Un giorno un mio amico prete mi disse: "Sai, c'è uno che è partito con l'idea di eliminare la fame nel mondo". La faccia più spontanea che mi è riuscito di fare stava tra l'ironico e il cinico. Alla fine mi trattenni per non ridergli in faccia. "E' ancora vivo, si chiama Ernesto Olivero. Sta ancora combattendo per il suo sogno; dacci un'occhiata". Così decisi di accettare la sfida e capire chi era questo pazzo, che aveva idee così strane e molto simili alle mie. E così scoprii che lui fondò il SerMiG (www.sermig.org) a Torino (città che, per altri motivi, mi sta a cuore): un arsenale di guerra trasformato in Arsenale della Pace. Questo posto parla di un sentiero che non ho ancora percorso, una meta che non ho ancora raggiunto. Da diversi anni, ormai, sto aspettando di poterci arrivare, ma sono sicura che quel momento arriverà.

Per adesso, voglio presentarvi questo grande uomo:

La storia del Sermig è iniziata da una sua intuizione. Che cosa la spinse a intraprendere questa avventura e che cosa aveva in mente di fare?
ERNESTO OLIVERO: Quando si inizia un’avventura non si sa mai dove si va a finire. L’idea che avevo era quella di combattere, non di sconfiggere, ma di combattere la fame nel mondo. Ma il punto di partenza fu una commozione, la compassione per un povero che non aveva un tetto sotto il quale passare la notte. L’inizio di ogni bella e grande avventura, come è quella del Sermig, penso sia sempre segnato da una commozione alla quale si dice “sì”. Io dopo quel primo “sì” ne ho detti altri, e dopo quarant’anni mi sono accorto di averne pronunciati, grazie a Dio, forse un miliardo.

Gli inizi non furono facili, anche se un grande aiuto ve lo diede l’arcivescovo di Torino, il cardinale Michele Pellegrino.
OLIVERO: Sì, fu lui che nel 1969, pochi anni dopo la fondazione del Sermig, ci offrì come sede la chiesa di via dell’Arcivescovado, in un momento in cui non sapevamo “dove posare il capo”, perché nella diocesi di Torino non eravamo ben visti. Il cardinale era un uomo di Dio, un umile uomo di Chiesa, che parlava di giustizia. Ci ha riconosciuto quando noi “non ci conoscevamo” ancora. Fu il nostro primo amico. Attraverso di lui abbiamo conosciuto dom Hélder Cámara, con il quale organizzammo, nel 1972, un incontro pubblico insieme a 10mila ragazzi nel Palazzetto dello sport di Torino. Anche dom Hélder divenne nostro amico.

La vostra storia è segnata da molte amicizie e molti incontri importanti, non solo con uomini di Chiesa, ma anche con grandi personalità laiche...
OLIVERO: L’incontro più importante per la mia vita è stato quello con Gesù. È a lui che si dice sì all’inizio e durante tutta l’avventura. L’incontro con lui ti fa entrare in una grandissima libertà, perché lui è l’unico che ha parole di vita eterna, è l’unico che dice che le forze del male non prevarranno, l’unico che ha ascoltato chiunque… Mi sono capitati, senza che li perseguissi, incontri con persone totalmente diverse da me. Le ho ascoltate, ho imparato tante cose, e sono stato spessissimo corretto. E se è accaduto che sia stato io a correggere qualcuna di queste persone, spero di averlo fatto con uno spirito di grande apertura, cioè con uno spirito cristiano. Una delle grandi fortune dell’essere cristiani sta anche in questa libertà di dialogo e di rapporto con tutti.


La personalità laica più significativa in cui vi siete imbattuti è stata senz’altro Norberto Bobbio, che della comunità del Sermig disse: «Quando sono con voi, anch’io, nonostante i miei dubbi, mi abbandono alla speranza». Un ricordo che ha di lui?
OLIVERO: Uno solo? Ne ho tantissimi... Il giorno in cui lui è venuto a mancare io ero in volo da Roma a Trieste. Leggevo la Bibbia, come faccio tutti i giorni. Ero sul passo di Luca che dice: «E ora lascia che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola». Annotai questa frase pensando a Norberto, senza sapere che era in gravissime condizioni. Arrivato a Trieste alle 18 e 20, ricevetti una telefonata e venni a sapere che poco prima era morto. Norberto e io abbiamo avuto un’amicizia molto bella e molto umana. Ci sono stati molti contrasti perché lui era una persona vera e ci dicevamo in faccia tutto ciò che pensavamo. Mi spiegava sempre che la lite o la discussione accesa non dovevano mai “oltrepassare la notte”. Un giorno litigammo e io andai via molto arrabbiato da casa sua. Quella stessa sera, giunto all’Arsenale, mi comunicarono che era appena arrivata, con un pony express, una sua lettera nella quale mi scriveva: «Scusa. Ne riparleremo domani con più calma. Il dialogo non interrompe l’amicizia». Era un uomo buono.

Anche Madre Teresa è stata una grande presenza nella storia del Sermig. Fu proprio lei a candidare Ernesto Olivero al Premio Nobel per la Pace…
OLIVERO: Quando la conobbi – ero molto giovane e me la presentò padre Pellegrino – incontrai una persona qualunque. La bellezza e la grandezza di Madre Teresa stavano nella sua semplicità. Il mio cuore in quel momento mi disse: se tutto questo lo fa lei, lo posso fare anch’io, perché in lei vedevo la normalità, la semplicità disarmata di una donna cristiana. Le stesse caratteristiche che connotavano il cardinale Van Thuân, altro grande amico del Sermig. Certe persone, molto importanti, che sono quasi inavvicinabili, non ti fanno venire voglia di muoverti, non ti commuovono. Madre Teresa, Van Thuân, con la loro “avvicinabilità”, con la loro semplicità e umiltà, sono stati veramente un dono e sono felice di averli potuti incontrare spesso. Madre Teresa è venuta a trovarci alcune volte a Torino, l’ho rivista a Roma e ho avuto la grande gioia di poterle parlare un’ultima volta poco prima che andasse a morire in India.

Lei è appena tornato dal Brasile, dove il Sermig gestisce dal 1996 l’Arsenale della Speranza. In Brasile c’è un altro vostro grande amico, l’arcivescovo Luciano Pedro Mendes de Almeida.
OLIVERO: Penso che l’amicizia con dom Luciano sia la più importante della nostra storia. È una grande benedizione. Lo conobbi nel gennaio 1988 quando venne a trovarci a Torino. Me lo ero immaginato come un grande prelato, in realtà mi venne incontro un prete umile vestito dimessamente. Desideravamo ci raccontasse del Brasile, invece ci parlò del Libano dov’era appena stato. Mi suggerì di andare là, mi fece conoscere il patriarca maronita che mi invitò nel suo Paese dove mi recai a incontrare i giovani libanesi. Grazie all’amicizia con dom Luciano, il “padre piccolo”, che è entrato così inaspettatamente nella nostra vita, abbiamo potuto fare opere di carità in Libano, in Somalia, in Ruanda, in Iraq. L’aver conosciuto un uomo così radicato in Dio e nella Chiesa, così disponibile, è stato veramente uno dei doni più belli che ci ha fatto il Signore. Ci ha cambiato la vita. Grazie a dom Luciano il Medio Oriente è diventato casa nostra. Se anche il Brasile oggi è casa nostra, se nel 1996 abbiamo potuto creare a San Paolo l’Arsenale della Speranza, che ogni giorno fornisce a migliaia di persone accoglienza notturna, cure mediche, pasti caldi e corsi di avviamento al lavoro, è stato grazie a lui.

Una delle caratteristiche del Sermig che più colpiscono è la capacità di attrattiva che questa comunità esercita su un gran numero di giovani.
OLIVERO: Il mio grande dolore è constatare che i giovani sono realmente i più poveri e i meno conosciuti. I mass media confezionati dagli adulti raccontano solo di ragazzine che sgomitano per diventare “veline”, di adolescenti disadattati che non sanno superare i loro fallimenti esistenziali o di frotte di teenager attratti solo da godimenti effimeri e alienanti. Le nuove generazioni cercano in realtà due cose semplici, eppure difficilissime da trovare: l’umiltà e la verità. Mi vengono in mente due appuntamenti che danno il senso di quello che dico. Il 5 ottobre di due anni fa a Torino noi realizzammo un “G8 alla rovescia” a cui parteciparono 100mila ragazzi. Lo chiamammo così perché otto giovani con una storia difficile alle spalle la raccontarono davanti ai loro coetanei e ai rappresentanti delle istituzioni. Furono 100mila i ragazzi che raggiunsero Torino, senza nessun battage mediatico, senza la presenza di rockstar, solo per mezzo di telefonate. E alla fine pulirono pure la piazza… Poi, l’incontro col Papa del 31 gennaio scorso: è stato organizzato in venti giorni. Sono state contattate 10mila persone in una settimana, e abbiamo dovuto dire decine di migliaia di no. Se avvengono cose del genere significa che l’immagine che i media ci propongono dell’universo giovanile è senz’altro parziale, se non del tutto falsa.
 Fonte: http://www.30giorni.it/articoli_id_2936_l1.htm

 Buon cammino!

martedì 12 gennaio 2016

Camminando - Sulle strade della Bosnia

Quando sei sulla Strada, metaforicamente parlando (ma non troppo), succede che capita di percorrere sentieri meno battuti, di battere passi laddove altri hanno già rinunciato da molto o attraverso foreste da molti dimenticate. E la Bosnia di foreste certo non è carente, e di oblio nemmeno. Un velo di oscurità che tutti noi, alunni della quinta liceo dello scorso anno, eravamo pronti a stendere appena ci venne pro/im-posta la gita a Sarajevo. Certo è che in confronto alla Grecia o a Monaco (mete delle quinte classico e scientifico), il paragone secondo noi non poteva reggere. Eppure, io ho solo da ringraziare l'ostinazione e la determinazione della preside e degli insegnanti dal non desistere dalla volontà di "viaggiare i Balcani". Infatti, grazie ad una preziosa preparazione da parte di buoni insegnanti e dal mio coinvolgimento in prima persona nella preparazione di materiali, io in viaggio c'ero già ancora prima di salire in corriera. Quelle che voglio condividere oggi sono delle parole scritte al ritorno a casa dopo una settimana di Viaggio d'Istruzione (perchè tale è stato, non "gita").

LA MIA SARAJEVOLUTION
Ed è proprio come avevo immaginato: sono alla mia scrivania, in camera, illuminata dalla calda luce della lampada comperata per le vie di Mostar. Adesso ci siamo solo io, lei e la settimana appena trascorsa nei Balcani.
Quando sono partita ero già carica, e ho voluto darmi un solo imperativo: vivi! E così è stato: la Bosnia ha saputo donarmi la sua semplicità per farmi ritrovare quella serenità che da molto mi mancava. A chi mi domanda “cosa ti è piaciuto?” io ancora non so rispondere, mi accorgo che a certe emozioni mancano le parole, oppure io ancora non le conosco. Come spiegare i volti, gli attimi, gli sguardi, le città a chi in Bosnia non c’è stato? E’ proprio vero: finché non ci vai, non puoi capire.
A questa gita io devo tanto perché è stato molto quello che ho scoperto e ciò di cui ho avuto bisogno. “Non importa quanto si vive, ma con quanta luce dentro”. Questa frase di Vecchioni mi ha accompagnato per tutto il primo giorno e poi, nei giorni seguenti l’ho toccata con mano: quanta luce hanno saputo mostrarmi, nelle loro storie, molte delle persone che mi erano affianco! 
Quello che mi ha regalato maggiore stupore è stato un riscoprirmi così tanto attaccata alla vita, a non darla più per scontata. Qualcuno l’ha già avuta una “seconda nascita” e ha capito di dover “lavorare solo per chi mi merita. Non ho più tempo da perdere con chi non ha voglia di imparare”.
In Bosnia ho avuto fame di vita, di storie; ho saziato la mia sete di sguardi, sorrisi, abbracci; ho avuto bisogno di sentire le lacrime rigarmi ancora il volto; ho scoperto la tenerezza e la sorpresa di una carezza inaspettata dalle grandi e forti mani di un generale.
Questo viaggio mi ha messa in ginocchio, perché quella è stata la posizione migliore per viverlo e per servire, silenziosamente e gratuitamente, l’altro. E ho ricevuto in cambio molto più di quel niente che potevo aspettarmi. Ho vinto nuovi amici, nuovi sguardi, nuove storie. Ho guadagnato degli esempi: Mario, Rada, Divjak, che solo a Srebrenica ho capito quanto valgono. Loro, come molte altre persone, sono quel bene silenzioso e invisibile che lavora tra le pieghe della Storia. La Storia. Mi sono domandata a cosa serve la Storia se l’uomo non sa imparare. Uomo. Al Memoriale ho scoperto quanto coraggio ci vuole a pronunciare questa parola, delle volte così terribile. Ho letto 8372 nomi di uomini, la cui vita è stata spezzata da uno sparo. Molte volte di un fratello. La morte è naturale, una presenza imprescindibile nella vita. Ma una morte così è inaccettabile. Ho visto le mani di un uomo levarsi verso il cielo, come preghiera davanti al nome di un familiare o di un amico; mi sono domandata quanto fegato ci vuole per raccontare ai bambini l’orrore di quello che è successo.
A Srebrenica ho sentito forte l’impulso a piangere, specialmente al pensiero che tante di quelle lapidi erano di ragazzi più giovani di me; ho avuto bisogno di essere abbracciata e consolata nel mio sgomento. Ho visto lapidi perdersi a vista d’occhio e ho voluto camminarci da sola in quel prato, scoprendo per la prima volta,forse, il significato più autentico di “urlo nero della madre” (Quasimodo).
Ancora una volta la terra e la natura sono state testimoni: hanno regalato “Frutti di pace” all’uomo che combatteva con coraggio per ricominciare e hanno sofferto per il non-uomo che faceva della morte la sua bandiera.
E poi mi sono spaventata, perché gli autori di questa guerra sono storia a colori e a raccontarcela perché vissuta è stato un giovane. Questo orrore è accaduto più vicino a noi di quanto crediamo. Non possiamo chiudere gli occhi!
La Bosnia è una casa da accarezzare, da vivere ad occhi chiusi, solo con le mani; e anche ora che sono in camera mia mi prendo il mio tempo e carezzo la lampada che mi sta illuminando. Pazzia? Forse. Eppure così mi sembra di non aver mai fatto ritorno a casa. Adesso sono ancora a Mostar, seduta accanto a quel “DON’T FORGET” che è rispetto e timore; sono ancora sullo Stari Most ringraziando l’Uomo che ha lottato per la sua ricostruzione, simbolo di speranza; e sono anche a Bratunac da Rada, ad ascoltare la storia della cooperativa; adesso sto tornando a Sarajevo, e cammino per le strade della “Barsciascia” o nell’atrio della splendida Biblioteca; ora, invece, sono seduta a bere del caffè turco e ad ascoltare la storia di Fuhad e sento la sua voce dire “ho scoperto che esistono solo due tipi di uomini: i buoni e i cattivi”. Tuttavia, sono anche in mille altri posti. Sono anche a casa mia e nella corriera nel viaggio verso casa, quando già si sentiva la nostalgia ("dolore del ritorno") di qualcosa di speciale.
Sarajevo (e tutta la Bosnia) mi è rimasta dentro, come una vita vissuta a metà: la promessa di tornare a riprendermi il mio non ancora vissuto, tutto ciò che non ho ancora visto.
La nostra è stata una gita splendidamente umana. In tutti i sensi. E con ciò voglio dire che non ho chiuso gli occhi su quegli aspetti, prevalentemente tecnici, che si potrebbero migliorare; ma quelli non cambieranno mai l’essenza di ciò che questo viaggio è stato.

Per chi non ha idea di cosa sia successo nei Balcani dal 1991/92 al 1995 consiglio la lettura di

  • P. Rumiz, Maschere per un massacro, Feltrinelli, 2013
  • E. Suljiagic, Cartolina dalla fossa, Beit, 2010
  • Nuhefendic, Le stelle che stanno giù, Spartaco, 2011
  • Sidran, Le lacrime delle madri di Srebrenica, ADV Publishing House, 201

ALCUNE FOTO:

La biblioteca di Sarajevo (ricostruita dopo l'incendio del 25 agosto 1992)

La Biblioteca di Sarajevo di notte
L'interno della Biblioteca
 


Il memoriale di Srebrenica (luogo in cui sono ricordate le vittime del genocidio perpetrato dai nazionalisti Serbi nei confronti dei bosniaci musulmani. 8372 è stato il numero delle vittime)


Le lapidi

Monumento che riporta il nome e l'anno di nascita di ciascuna vittima
Il coraggio di ricostruire: la Cooperativa Insieme nei pressi di Srebrenica (http://coop-insieme.com/) e i loro "Frutti di pace"

Iscrizione sul copertchio del vasetto di marmellata

Mostar (località per il famoso ponte bombardato e distrutto da cannoni croati, ennesima testimonianza di odio etnico)
Stari Most, unisce i due argini della Neretva e divide
la parte cattolica e quella musulmana della città
 

venerdì 8 gennaio 2016

Camminando - Su sentieri già battuti

Dopo avere preso coscienza del Senso profondo della Pace, superando il solo ingenuo abbinamento ad un'armonia di colori, e dopo averne capito il valore vivendo in Bosnia i traumi dovuti alla sua assenza (ma questa è un'altra storia), riflettere su questa e lavorare, nel mio piccolo, per realizzarla è diventato un altro modo per fare Strada. Oggi desidero condividere la riflessione di un grande uomo che ha aperto sentieri nuovi in questo mondo: don Tonino Bello. Egli in occasione di un viaggio dentro la Sarajevo assediata da cecchini serbi nel 1992 si pronunciò in questo modo così emblematico:

A dir il vero, noi non siamo molto abituati a legare il termine «pace» a concetti dinamici. Raramente sentiamo dire: «Quell’uomo si affatica in pace», «lotta in pace», «strappa la vita con i denti in pace». Più consuete nel nostro linguaggio sono, invece, le espressioni: «Sta seduto in pace», «sta leggendo in pace», «medita in pace» e, ovviamente, «riposa in pace».
La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera, che lo zaino del viandante. Più il conforto del salotto, che i pericoli della strada. Più il caminetto, che l’officina brulicante di problemi. Più il silenzio del deserto, che il traffico della metropoli. Più la penombra raccolta di una chiesa, che una riunione di sindacato. Più il mistero della notte, che i rumori del meriggio.
Occorre, forse, una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un «dato», ma una conquista. Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno. Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo.
La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia. Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio. Rifiuta la tentazione del godimento. Non tollera atteggiamenti sedentari. Non annulla la conflittualità. Non ha molto da spartire con la banale «vita pacifica». Non elide i contrasti. Espone al rischio di ingenerosi ostracismi. Postula la radicale disponibilità a «perdere la pace» per poterla raggiungere.
Dal deserto del digiuno e della tentazione fino al monte Calvario (salvo una piccola sosta sulla cima del Tabor), la pace passa attraverso tutte le strade scoscese della Quaresima. E quando arriva ai primi tornanti del Calvario, non cerca deviazioni di comodo, ma vi si inerpica fino alla croce. Si, la pace, prima che traguardo, è cammino. E per giunta, cammino in salita. Vuol dire, allora, che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi. I suoi percorsi preferenziali e i suoi tempi tecnici. I suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste.
Se è così, occorrono attese pazienti.
E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito. Ma chi parte. Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista, anche se mai (su questa terra, s’intende) pienamente raggiunta.
Fonte: www.paxchristi.it

Che anche questo diventi un augurio ed un proposito per il nuovo anno.